Dopo l’ennesima disfatta della nostra nazionale in una competizione internazionale, da giugno ad oggi ci siamo interrogati sui molti problemi che affliggono il nostro calcio. L’elenco, iniziato dopo quel disgraziato 29 giugno, giorno di Svizzera-Italia, ottavo di finale di Euro 2024, è diventato piuttosto lungo, tanto che il motto “Bisogna rifondare tutto”, come nel 2010, 2014, 2018 e 2022, è diventato virale sui social e in ogni trasmissione televisiva. Di fatto si è detto praticamente di tutto, ma una categoria è rimasta poco attenzionata dalla critica: quella degli allenatori influencer.
Capita sempre più spesso di imbattersi in allenatori, o più spesso istruttori senza patentino, che sono più attivi sui social che sui campi da calcio. In particolare su Instagram, piattaforma che ormai offre ampie opportunità di successo a chi si dedica all’influencer marketing, si trovano tuttologi ed esperti del settore che postano costantemente foto e video. Questi contenuti, però, li ritraggono raramente sui campi a insegnare ai giovani come “stoppare un pallone”, ma piuttosto in pose studiate per migliorare il proprio profilo.
Non si tratta solo di allenatori: anche direttori sportivi e manager appaiono in video mentre parlano (spesso a nessuno) per dimostrare le loro competenze. Insomma, persone che, stando alle descrizioni dei loro profili, meriterebbero palcoscenici di rilievo, ma che in realtà dimostrano poco o nulla.
In un’epoca dominata dai social, di per sé questo fenomeno non darebbe fastidio a nessuno. Il problema nasce quando molte società si lasciano abbagliare da ciò che vedono online e scelgono di rinunciare a chi, oltre ad avere il patentino e le competenze necessarie per lavorare in una scuola calcio o in un settore giovanile, ha anche anni di esperienza comprovata sui campi da calcio. A pagare le conseguenze, oltre alle società stesse, sono soprattutto i ragazzi e, di riflesso, le giovanili e le prime squadre.
Chiaramente, il problema del calcio italiano non sono solo gli allenatori influencer, ma anche loro sono finiti nel calderone, insieme a quelle dirigenze più preoccupate dai numeri di follower che dalla crescita dei propri giovani atleti.
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