Linguaggio inclusivo nello sport: a che punto siamo? Serve davvero?

Capace di far dialogare culture e valorizzare le differenze, lo sport negli ultimi tempi ha visto ampliare i suoi confini, i quali apparentemente possono essere ricondotti a mere pratiche ludiche. In realtà, lo sport assolve a funzioni simboliche e sociali preziosissime, riconosciute anche a livello giuridico: a partire dalla “Carta internazionale dello sport e dell’educazione fisica dell’Unesco” (1978). Carta grazie alla quale sono stati introdotti i principi universali della parità di genere, la non discriminazione e l’inclusione sociale nello sport e attraverso lo sport. Vengono evidenziati i benefici dell’attività fisica, la sostenibilità dello sport, l’inclusione delle persone con disabilità e la protezione dei minori.

Anche a livello nazionale lo sport ha conquistato una sua definizione con l’articolo 117 comma 3 che inserisce l’ordinamento sportivo (già presente nella le­gislazione ordinaria) tra le materie di legislazione concorrente.

La diffusione dell’attività sportiva nell’arena pubblica e politica è il segno evidente dell’importanza assunta anche da un punto di vista civile, sociale e culturale.

Ma fino a dove può estendersi la portata inclusiva dello sport?

Non siamo in grado di definire confini e statici netti perché il tempo ci dimostra quanto essi mutino e cambino al pari passo della società contemporanea. Recentemente stiamo assistendo, all’interno del dibattito pubblico, al binomio sport e linguaggio inclusivo. Un indice di cambiamento culturale sul modo di raccontare lo sport o l’ennesima trovata pretestuosa per incitare discussioni?

Sport e linguaggio. Per quanto in un primo momento possano rappresentare due mondi a se stanti, in realtà presentano una serie di comuni fattori denominatori. Lo sport e il linguaggio rappresentano un modello di società – virtuoso o meno che sia -, ma anche vere e proprie pratiche di comportamento capaci di incidere sulla formazione delle persone sottoposte. Premessa questa affermazione, il gender gap è una pratica altamente radicata anche nel mondo dello sport.

Alcuni dati possono aiutarci a inquadrare meglio il fenomeno: la quota delle ragazze che fa attività fisica è pari al 42,6%, contro il 58,4% della controparte maschile. Se ristringiamo la platea ai tesseramenti delle federazioni vediamo come, dei quasi 5 milioni di tesserati, le donne occupano solo il 28%. Le allenatrici non arrivano al 20%, così come le dirigenti di società sportive e di federazioni, le cui percentuali sono al di sotto addirittura del 15%.

Sebbene il potenziale di inclusione sociale dello sport sia percepito, a livello pratico vediamo che non è così. Un grande colosso che ha una responsabilità in tal senso è il sistema mediatico. Giornali, televisioni, social network sono ancora intrisi di stereotipi e luoghi comuni per cui la rappresentazione pubblica delle atlete spesso e volentieri pone attenzione ai canoni di bellezza e meno ai risultati conseguiti. La copertura mediatica tra atlete e atleti è pressoché sproporzionata e a favore del settore maschile.

La lingua italiana, così come la conosciamo, è disegnata dal maschile universale per essere rappresentativa tutti i generi. Una convenzione che oggi, alla luce della sempre più spiccata disparità di genere, inizia a stridere nella lingua italiana secondo il punto di vista del mondo attivista che intravede un passo di parità nel cosiddetto “schwa”.

Uno dei primi sostenitori dello schwa nella lingua scritta è Luca Boschetto, che già nel 2016, veicolò un documento a favore della non discriminazione linguistica, sfociato poi in un sito, “Italiano inclusivo”. Sulla stessa scia affronta il tema la linguista Vera Gheno che, nel 2019, all’interno del suo libro “Femminili singolari”, ha idealizzato lo schwa come la soluzione alla mancanza nella lingua italiana del genere neutro.

La soluzione dello schwa non ha allettato l’opinione pubblica. Tuttalpiù, è stata disconosciuta al pretesto del politicamente corretto, oltreché altamente rischioso per persone dislessiche o affette da patologie neuroatipiche, così come sostenuto dal filosofo Massimo Cacciari.

La riflessione sulla disparità di genere influenza evidentemente gli ambiti della quotidianità. La lingua italiana fa parte del vivere quotidiano, dunque essa non può che presentarsi come un problema sociale, a cui deve seguire una presa in carico da parte delle istituzioni, che si vedono polarizzate su questo versante.

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