
Il calcio dilettantistico piemontese vive l’ennesima estate turbolenta, segnata da una serie di rinunce all’iscrizione nei campionati regionali e provinciali da parte di numerose società, dalle prime squadre ai settori giovanili. Un fenomeno ormai ricorrente, che evidenzia una crisi strutturale sempre più profonda, dove le energie dei dirigenti e la passione dei presidenti sembrano non bastare più a tenere in piedi un sistema logoro.
Già all’indomani della pandemia, si era intuito quanto le società camminassero su un filo sottilissimo. Le richieste economiche da parte di federazioni e Comuni – tra costi di iscrizione, affitti degli impianti e utenze – sono diventate insostenibili per molte realtà. Il quadro è disomogeneo: ci sono club che vivono una fase di crescita mai vista prima, con numeri in aumento e risultati positivi, ma ce ne sono altre, anche storiche e ben radicate, che arrancano, si fondono per sopravvivere o, peggio, scompaiono del tutto.
Un destino che accomuna dilettanti e professionisti: basti pensare all’Alessandria, risorta dalle ceneri dopo il fallimento e costretta a ripartire dalla Promozione con il solo nome a ricordare la grandezza passata. Ma se il calcio maschile è in difficoltà, quello femminile soffre ancora di più. E non per qualità o passione – anzi, l’interesse e l’entusiasmo sono in continua crescita – ma per l’incapacità strutturale di accogliere e sostenere un settore che avrebbe bisogno di politiche di sostegno e di visione, non di tagli o “riorganizzazioni” che spesso nascondono vere e proprie chiusure.
In questo scenario, serve una rivoluzione. Se non è ancora il momento per una riforma su scala nazionale – forse si attende l’ennesimo disastro sportivo – potrebbe essere opportuno ripartire dal basso, o meglio, dall’alto a livello territoriale. I comitati regionali potrebbero farsi promotori di un cambiamento concreto, costruendo modelli più sostenibili, con il supporto di enti come la Regione Piemonte, che in più di un’occasione ha dimostrato attenzione e presenza sul territorio.
Senza un cambio di rotta deciso, il rischio è che sempre più società siano costrette a chiudere i cancelli dei campi, lasciando intere comunità senza un punto di riferimento sportivo e sociale. E quel vuoto sarebbe molto più grave di una mancata iscrizione.