TORINO – Lo abbiamo ripetuto a più battute: nello sport, ci sono storie che vanno ben oltre la competizione, le vittorie, le sconfitte e il risultato; alcuni racconti parlano di coraggio, passione, resilienza e determinazione nel tentativo di uscire al momento più buio delle nostre vite: la storia di Gemma Grimoldi e della squadra femminile di calcio a 5 Mosquito, è una di quelle.
Gemma, giocatrice e fondatrice della squadra, è intervenuta ai nostri microfoni per raccontarci la sua storia e quella della sua missione, supportata e portata avanti insieme alle sue compagne e amiche: “Il progetto Mosquito nasce nel 2015, e adesso ci stiamo costituendo come associazione sportiva di promozione sociale; non siamo una normale squadra di calcetto perché, oltre agli allenamenti, organizziamo una serie di attività legate alla raccolta fondi destinati a un gruppo di ricerca del NICO (un laboratorio universitario della fondazione Ottolenghi), che ha sede presso il San Luigi di Orbassano”.
Grimoldi continua il suo racconto spiegandoci il perché di questa iniziativa volta alla donazione per la ricerca contro la sclerosi multipla: “L’idea di queste attività benefiche è partita da me con altre mie amiche, il motivo? Nel 2014 ho scoperto di avere la sclerosi multipla; questo evento ha sconvolto radicalmente la mia vita, anche se sono stata fortunata, la ricerca sta facendo dei passi da gigante. Perché proprio il nome Mosquito? La traduzione dall’inglese all’italiano è ‘zanzara’: all’inizio, gran parte delle mie terapie, richiedevano di effettuare delle punturine tre volte a settimana. Inizialmente vivevo male questa situazione, poi ho cercato di pensare a come poter ribaltare questo concetto; noi, esattamente come i ‘mosquitoes’, siamo lì a punzecchiare le persone con cui entriamo in contatto al fine di sensibilizzare il più possibile su questa tematica”.
La vita non è altro che uno scorrere inesorabile del tempo, cosa accade però, quando il tempo si ferma e la nostra vita viene travolta da qualcosa che è più grande di noi, al punto di sembrare insormontabile? E’ una delle domande più difficili a cui dar risposta; risposte che, Gemma, ha avuto difficoltà a trovare dopo la terribile notizia. Eppure, come accade in ogni grande storia, quello che sembrava essere un ostacolo, si è trasformato in qualcosa da cui trarre una lezione e,magari, un monito: “Forse non ho ancora metabolizzato la notizia, ma ho cercato di attivarmi per fare qualcosa di diverso; con le mie compagne, ci siamo domandate che cosa avremmo potuto fare per conciliare la passione per il calcio con uno scopo sociale: il risultato non è stata alcuna invenzione, ma la semplice applicazione del terzo tempo rugbistico anche nel calcio. Una volta terminate le partite, invitavamo le nostre avversarie a mangiare con noi in locali che avevano aderito alla nostra iniziativa: una parte del ricavato della cena veniva devoluto al centro di ricerca”.
La fondatrice del Mosquito, però, ha continuato il suo personale impegno fuori dal rettangolo verde cercando di migliorare sempre più l’iniziativa: “Questa formula ha riscosso parecchio successo, ma gli orari improponibili di fine gara hanno spesso reso difficile organizzare i ‘terzi tempi’. Di nuovo, ci siamo trovate nella situazione di dover pensare a come agire per rendere più efficace il nostro contributo alla ricerca: abbiamo iniziato a organizzare degli eventi, tra cui aperitivi, pranzi di natale e, nel 2019, il nostro primo torneo.
Durante la pandemia, non ci siamo fermate, creando delle mascherine brandizzate con su scritto il nostro motto ‘Non scleriamo!’, che spedivamo a chi offriva una piccola donazione. Dopo il Covid, abbiamo ripreso la nostra attività sul campo: lo scorso anno abbiamo organizzato un altro torneo presso il Centro Sportivo Lingotto, durante il quale (tramite donazioni spontanee), siamo riusciti a racimolare una piccola ma grande cifra per il centro di ricerca”.
Gemma continua la sua storia parlandoci di quelli che sono gli obiettivi della squadra: “Il gruppo che si è formato quest’anno non è solo sportivo, ma anche organizzativo: c’è un vero e proprio team di lavoro che si sta attivando per dare un volto a questa associazione, sia per motivi di trasparenza, sia per proseguire in maniera strutturata, lasciando un qualcosa che possa essere tramandato.
Grimoldi conclude il suo intervento a Piemonte Sport con un messaggio di lotta e speranza: “Sinceramente non mi sento un esempio, spesso mi sono sentita dire che fossi un modello, poiché, nonostante la malattia, riuscivo a giocare a calcio. La verità? Sono l’esempio che ho avuto cu*o, scusate il francese! Se proprio devo rappresentare un modello e dare un consiglio, sono contenta di essermi attivata al di fuori del rettangolo di gioco, vivendo lo sport in maniera differente, cercando di far comprendere alle persone che, nonostante una patologia come la mia, si può sempre far qualcosa. Ci tengo a ringraziare le mie amiche: mi sono state vicine non solo nella sfera personale , ma anche realizzando questo progetto, il merito non è solo mio”.