25 novembre, lo sport in campo per cambiare la cultura della violenza sulle donne

Da giorni assistiamo e seguiamo la mobilitazione dei campi sportivi in occasione della Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne, con iniziative pensate per sensibilizzare – a più livelli – l’opinione pubblica sportiva. Lo si fa attraverso un segno rosso in viso, tramite campagne di comunicazione oppure, ancora più concretamente, raccogliendo fondi a sostegno delle realtà che ogni giorno, con passione e impegno, affiancano le donne che subiscono violenza di genere. Segnali che arrivano trasversalmente dal nazionale fino al locale, dal calcio fino al tennis.
Come in Serie A, dove lo scorso week end giocatori e tecnici sono scesi in campo con il “baffo rosso” sulle guance. In occasione delle sfide Lazio Women-Inter Women e Lazio-Lecce, inoltre, cento posti delle tribune sono stati coperti da un drappo rosso, mentre quattro sedie rosse posizionate a bordo campo. Ed infine la proiezione del video “Mai più un posto occupato”.
Durante tutto il weekend del 25 novembre, il gesto simbolico del cartellino rosso, unito al messaggio di WeWorld e Lega Serie A, vuole trasformarsi in un invito collettivo all’azione a partire dai dati Istat, che restano stabili e lasciano poco margine a interpretazioni pretestuose: in Italia 1 donna su 3 è destinata a subire una qualche forma violenza nel corso della vita (Per leggere primi risultati Istat 2025). E con “Un Rosso alla Violenza”, insieme a Lega Serie A, si ricorda che può essere essa può essere sì fisica, ma anche psicologica, economica, sessuale (anche all’interno delle relazioni intime, ndr), digitale o domestica. E le manifestazioni delle donne che vivono in situazioni di violenza sono molteplici, concomitanti e non sempre visibili: silenzio, controllo, svalutazione, dipendenza economica. Il cammino verso il 25 novembre, peraltro, era già iniziata a Torino in occasione delle Atp Finals, quando la cantante Fiorella Mannoia ha revisionato il finale della sua celebre canzone “Quello che le donne non dicono” (1987), da “Ti diremo ancora un altro sì (Sì)” in “Perché quando una donna dice ‘no’ è ‘no’ per davvero”, portando in luce il tema del consenso, la cui proposta di legge ha raggiunto l’unanimità a Montecitorio lo scorso 19 novembre.
E lo sport locale piemontese non è da meno. Per esempio, domenica 23 novembre, al centro sportivo Salsasio di Carmagnola, si è tenuto il torneo benefico di calcio a 7 “In campo contro la violenza”, organizzato dall’Asd Salsasio e dal Comune di Villastellone, con il patrocinio del Coni e del Comitato italiano paralimpico. Una giornata che ha coinvolto non solo atlete e atleti, ma anche amministratori e amministratrici del Consiglio regionale del Piemonte, in una sfida all’insegna del fair play e della promozione della cultura del rispetto. La giornata è stata un’occasione per raccogliere fondi destinati al progetto S.O.S. – Sostegno orfani speciali, coordinato dai Centri Antiviolenza E.M.M.A. Onlus.
Le innumerevoli iniziative organizzate e tenutesi in occasione del 25 novembre ci ricordano che viviamo ancora in una società profondamente diseguale, nella quale lo sport non è neutro: può e deve svolgere un ruolo educativo affinché le donne possano uscire dalla condizione di disparità. Perché sappiamo bene che nello sport risiedono stereotipi, norme culturali e discriminazioni. Basti pensare a come bambine e bambini vengono socializzati sin dai primi anni a sport “da maschi” e “da femmine”, creando in loro – inconsapevolmente – ruoli, aspettative e gabbie: le bambine con il tutù rosa che imparano a danzare sulle punte, i bambini con il tacchetto da calcio chiamati a tirare forte.
Ruoli destinati a incidere sulle vite di bambine e bambini, ragazze e ragazzi e, infine, dei futuri adulti. Il settore sportivo resta un terreno fertile non solo per la crescita delle future generazioni ma anche per l’emancipazione femminile. Ciò è stato ribadito anche dalle istituzioni europee che, nell’attestare come lo sport sia – ancora oggi – un ambito prettamente maschile, raccomandano le federazioni internazionali ad un maggiore equilibrio di genere multilivello: dalla partecipazione delle atlete alle competizioni sportive, alla presenza femminile negli staff tecnici, fino agli organi decisionali.
Lo sport rivela quindi tutta la sua responsabilità culturale. Perché se è vero che un campo di calcio che si tinge di rosso ha un significato preciso, è bene anche che questo non resti confinato al weekend del 25 novembre. Perché la violenza di genere non si combatte quella giornata l’anno negli stadi pieni o davanti a una diretta televisiva. Essa prolifera sistematicamente negli spazi considerati “sicuri”, nelle incitazioni sessiste tra gli spalti, nelle battute da spogliatoio, insomma, nella quotidianità che ci circonda e a cui, forse, poco facciamo caso. Per questo la violenza di genere necessita di essere contrastata ogni giorno. “E come?”, ci chiediamo. Proprio partire dai discorsi “normalizzati” che governano gli ambienti della nostra quotidianità: dentro gli spogliatoi, nelle palestre di quartiere, nei campionati giovanili, ma anche nei discorsi degli allenatori, nelle telecronache dei giornalisti, nei cori negli stadi.
È risaputo, ed anche attestato, come il calcio – sport maschile nell’immaginario collettivo – continua a essere uno dei luoghi di eccellenza per l’ apprendimento e formazione della maschilità, spesso performativa, competitiva e aggressiva. Eppure non esiste terreno più fertile dello sport per ribaltare queste narrazioni, restituendo a tutti i corpi la libertà di “potersi mettere in scena”, a dirla con le parole del celebre sociologo Goffman.
Se il mondo sportivo vuole davvero essere parte del cambiamento culturale, deve cominciare a interrogarsi internamente, proponendo soluzioni che non investano solo in maglie personalizzate, ma in percorsi incisivi di lungo periodo. Dalla formazione degli allenatori, dal linguaggio utilizzato dagli opinionisti, dal sostegno strutturale ai centri antiviolenza, dal garantire opportunità, risorse, visibilità allo sport femminile.
Lo sport, lo sappiamo, almeno in Italia, è espressione di una cultura popolare. Resta uno dei pochi ambienti in cui generazioni, estrazioni sociali e culture diverse si incontrano, imparano e si contaminano. Lo sport è un linguaggio universale. Ed è proprio in questa ottica che le pratiche sportive nella loro agenda hanno l’occasione di costruire un immaginario diverso, contribuendo a migliorare tutta la nostra società.
Quindi, cari lettori e care lettrici, il 25 novembre passerà. Ma la responsabilità no. Quella deve proseguire. E allora la domanda è semplice: dopo il segno rosso sulle guance, che cosa ci rimane? Se rimangono consapevolezza, partecipazione collettiva, educazione, inclusione, allora lo sport avrà fatto centro. Perché una società più giusta, più equa si allena ogni giorno, insieme.
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