Secondo quanto riportato dai dati ufficiali della FIFA il calcio, con le sue 29 milioni di tesserate, è lo sport più praticato al mondo dalle donne. Una crescita del movimento esponenziale, che non ha coinvolto solo l’aumento delle iscritte, ma anche un aumento delle giocatrici professioniste e semi-professioniste, degli allenatori qualificati e degli ufficiali di gara con qualifica; aumenti, che ovviamente si sono riscontrati anche nel piano economico di questa industria, con investimenti che sono duplicati, se non triplicati, rispetto a dieci anni fa.
Numeri impressionanti, che giustificano la popolarità di questo sport a livello globale; eppure, in Italia, non solo continuiamo a chiedere alle ragazze di “tornare in cucina”, ma il movimento, alla base, continua a non crescere.
Se i numeri, a livello assoluto e per quanto riguarda la Serie A sono in crescita, registrando quasi 40mila tesserate, 10 milioni di appassionati e un oltre il 140% di audience televisivo, non si può affermare lo stesso per ciò che concerne i settori giovanili.
Le motivazioni legate alla fatica dello sviluppo del calcio femminile italiano nelle sue fondamenta, secondo quanto riportato da LFootball, è legato a motivazioni che rasentano il banale: dal 2024-2025, le società professionistiche non saranno più obbligate a tesserare un minimo di giovani calciatrici, con sanzioni ridotte per chi non rispetta tali impegni.
Per le squadre maschili, quindi, diventa molto più pratico collaborare con società femminili locali, anziché sviluppare nuove squadre giovanili all’interno della medesima società.
Tale discorso, implica un’inevitabile rallentamento della crescita, che rischia di invertire ulteriormente la rotta laddove, in tanti paesi europei, si è già conquistata una meta preziosa.
Alle difficoltà burocratiche, si aggiungono anche le solite retoriche di coloro che si professano pseudo appassionati che, seduti comodamente dal proprio divano di casa, riversano costanti critiche alle ragazze non tanto per l’aspetto tecnico, ma per l’essere donne e, quindi, non “degne” o “non in grado” di praticare quello che, di fatto, è lo sport più praticato al mondo.
Una retorica tutta italiana che, a seguito dei recenti dati, inizia a risultare grottesca.
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